Perché Prince è Prince

Perché Prince è Prince
sottotitolo: e noi non siamo un ...
Tra i miei eroi dell’infanzia che si sono ritagliati uno spazio nel mio immaginario e lì son rimasti, in bilico tra cuore e devozione assoluta, c’è Prince.
Il primo ricordo folgorante che ne ho è indissolubilmente legato al video di Kiss: sempre la tv della cucina, VideoMusic a fare da sottofondo alla colazione, guardo i biscotti che annegano nel latte e puff, alla tv sento uno stacco insolito, un verso gutturale, un basso che pompa le basse e questo nanetto a torso nudo che canta in falsetto con una DONNA, incredibile dictu, a suonare una chitarrona bianca. Big bang, epifania, quello che volete, ma lì ho capito cosa significhi muoversi sotto comando di un ritmo che ti impedisce di stare fermo.
Certo, in seguito avrei capito tante cose: che nella canzone il basso non c’è ma che al suo posto c’è un sintetizzatore che pompa, che all’epoca la cosa era insolita, talmente insolita che nell’ambiente musicale questo arrangiamento fece scalpore, che la chitarrona era una Gretsch e che le donne possono suonare e benissimo la chitarra. Ma ovviamente a posteriori, con un forte apporto di Google. Ma la sostanza comunque non cambiava: il tizio ci sapeva fare.
Quello per noi europei era un po’ il periodo d’oro di Prince: dopo Purple Rain, con la strage di premi che ottenne di la dall’oceano, vennero Around The World In A Day, Parade, Sign of the time con il bellissimo video con il testo che scorreva, Lovesexy, la colonna sonora di Batman, insomma di Prince ne eravamo sommersi. Era il periodo dove faceva tour esagerati, dove per pure capriccio faceva saltare le date perché non gli andava. Insomma più che il genietto di Minneapolis era uno stronzetto. Però era talmente unico che nemmeno il suo carattere bizzoso ne intaccava la fama, anzi, tutto andava ad accrescere il mito di questo minuscolo Artista.
Poi, come sempre succede, una personcina così qualche casino se lo inventa: arrivano le cause con la casa discografica, il periodo dove si scriveva slave sulle guance perché costretto a fare album per onorare i contratti, divorzi, testimoni di Geova, album online, tripli album per sfogarsi, rifiuto di apparire su qualunque sito con rimozione del contenuto che lo riguardasse etc etc. Un gran baillamme che invece che fargli da pubblicità lo relega nelle notizie di cronaca rosa, alle volte persino al “Forse non sapevate che” della Settimana Enigmistica. Così, mentre da noi viene ricordato dalla stampa per il matrimonio con una italiana, che poi non era italiana ma canadese con genitori emigranti, in America rimane comunque il ricordo del polistrumentista genio, dei fasti dei tempi che furono, un ricordo mantenuto vivo da qualche comparsata in tv. C’è il sapore dell’amarcord però, del cosa volete che abbia più da dire, del “sì, va beh, fa una canzone al giorno nei suoi studios al Paisley Park, ma va vista la qualità”.
Fino al 2004.
Nel 2004 Prince si decide a rimettere qualche puntino sulle i, a tornare a dire la sua. E lo fa come sa fare lui, con la musica.
Tira fuori un album, Musicology, che potrebbe averlo fatto James Brown, ma con un orecchio ai suoni ed agli arrangiamenti che potrebbe averlo fatto qualcuno negli Abbey Road Studios, con un gusto che raramente se ne trova. A meno che tu non sia Prince che fa Prince.
L’attenzione riesplode, tutti lo vogliono e tutti iniziano a ricordarsi di quanto fosse bravo, dello showman, di come ballasse e chiamasse gli stacchi della band. Ovviamente chi è nel giro si ricorda anche di quanto sia bravo a suonare gli otto strumenti che suona, molto bravo, dannatamente bravo.
Ed è per quello che nel 2004, quando introducono George Harrison nella Hall of Fame, chiamano pure Prince a rendergli omaggio, perché è in voga ma soprattutto perché è bravo.
La canzone è While My Guitar Gently Weeps, scritta da Harrison ma firmata sul disco da Lennon/McCartney. Canzone famosissima, ripresa da tantissimi artisti, soprattutto chitarristi per l’omaggio insito nel titolo.
Chitarristi, brutta gente.
Sì perché alla fine i chitarristi son quasi tutti invidiosi, ignoranti di musica perché imparano ad orecchio, quasi nessuno studia armonia, son fan di questo o quello e disprezzano immancabilmente tutto il resto. Ma soprattutto il chitarrista soffre del principio del pisello corto: se sei sul palco con un altro chitarrista devi per forza fare a chi ce l’ha più lungo. Ovviamente se sei un artista vivi la cosa con altro spirito, ma da chitarrista inizi a pianificare come fare a sommergere l’altro o con un volume mostruoso, o con una raffica di note, o col suono figo o purgandogli la birra.
Questo preambolo solo per farvi capire come si doveva sentire l’altro chitarrista che era sul palco con Prince.
Sì perché oltre a riesumare vecchie glorie a cantare While my guitar come Tom Petty, Jeff Lynne, Steve Winwood (tutta gente nel giro di Tom Petty e gli Heartbreaker), c’è bisogno ovviamente di una band. Lynne propone di portare il proprio chitarrista Marc Mann, un fior fiore di professionista che aveva già suonato con loro e Clapton nel tributo di due anni prima, dividendosi con Slow Hand i soli. Mann sa quanto Prince suoni ma si sente più figo: insomma, aveva fatto a metà con Clapton, con sto reduce degli anni 80 non c’è storia dai e si prepara quindi a coprirlo. Come fare però? Mann fa la cosa più sensata a tavolino: si prepara i soli della canzone come li aveva fatti Clapton, che figura pure nella originale e li prepara con attenzione particolare persino per i suoni.
Come fanno la prova in previsione della serata, alla presenza di Dhani Harrison che avrebbe diviso con loro il palco omaggiando il padre, Mann spara tutti e due i soli convinto di spiazzare Prince e al limite di farlo andar via contrariato con la speranza di dar buca poi alla performance ufficiale. Perché Prince era quello che faceva saltare le date per capriccio, Prince è una prima donna, vuole il palco per sé.
Solo che Prince è cambiato, non ha più vent’anni. Prince dopo l’unica prova dice “Ok, i soli li fa Mann, io qualcosa mi inventerò”. Nessuno però sa cosa anzi, in diversi sotto sotto pensano che Prince farà casino durante lo show oppure non salirà sul palco con loro. Se ne vanno dalle prove con un po’ di agitazione, soprattutto perché il genietto di Minneapolis è tranquillo. E’ tranquillo nonostante non abbia praticamente provato niente con loro se non l’accompagnamento, è tranquillo nonostante le prove per la sua performance di apertura siano state funestate da ogni tipo di problema tecnico. Sì perché Prince nel 2004 oltre a rendere onore a Harrison veniva allo stesso tempo accolto nella Rock And Roll Hall of Fame, era la sua festa, il riconoscimento alla carriera.
Ed il bizzoso genio di Minneapolis era tranquillo.
Poi cosa succede è storia: la sua performance è il medley alla quale Prince ci aveva abituati, dodici minuti di fuoco, ritmo, gusto.
Ma signori, con il Tributo ad Harrison, fa capire a tutti chi è che porta il cappello: c’è l’enciclopedia completa di cosa dovrebbe essere una chitarra che suona, che incanta. C’è il genio distillato, l’olio essenziale delle sei corde. Ma lo fa con la naturalezza di chi è madre lingua, parla una lingua meravigliosa piena di tutto e fluentemente. Fa la differenza semplicemente lasciandosi andare a se stesso. Reinventa una canzone donandogli una dimensione nuova, facendo sentire davvero la chitarra che piange. Facendo capire la differenza tra l’Artista ed il chitarrista. E’ tanto evidente a tutti l’immensità del momento che tutti quelli sul palco gli dicono di continuare a suonare, Dhani ride incantato. Allora Prince continua a suonare su di un altro giro, leggero sopra la musica che gli sgorga da dentro e che incanala nella chitarra con quell’amore che gli scappa via dai polpastrelli.
Guardatelo ed ascoltatelo adesso il video. Adesso lo capirete pure voi.
Perché lui è Prince.
E noi non siamo un ...

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